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Cenni storici sul rito
L’Ufficio delle Tenebre è una tradizione antichissima della Chiesa
Cattolica, risalente almeno al IX secolo. Il rito avveniva nei tre
giorni del Triduo Pasquale e consisteva nella recita del Mattutino (oggi
Ufficio delle Letture) e delle Lodi del giorno. Ad ogni antifona (9 del
Mattutino e 5 delle Lodi) corrispondeva lo spegnimento di una delle
quindici candele poste su un particolare candelabro o lucernario detto “saettia”.
Solo l’ultima restava accesa, e veniva nascosta. Lo spegnimento era
seguito da un “terremoto” o “strepitus” alla fine del rito, nella totale
oscurità della chiesa. In seguito alla riforma della Settimana Santa del
1955 (e poi con la riforma liturgica del Concilio Vaticano II), il rito delle
Tenebrae declinò progressivamente fino a scomparire: rimase
ovviamente la celebrazione dell’Ufficio delle Letture e delle Lodi, ma
senza questa speciale cerimonia. Tuttavia in alcuni luoghi, come
Belvedere, la tradizione si è conservata fino ad oggi.
Le Tremule a Belvedere
Marittimo
La struttura antica dell’Ufficio delle Tenebre (‘i Tremule) a Belvedere
prevedeva l’anticipazione dell’Ufficio delle Letture e delle Lodi del
Giovedì Santo alla sera del Mercoledì Santo. Non si sa per quale motivo
il rito venne anticipato, probabilmente ciò è da imputare alla
moltitudine di celebrazioni che affollavano i tre giorni del Triduo
Pasquale.
Nella celebrazione il Salmo 50 (Miserere), liturgicamente posto
all’inizio, veniva spostato alla fine del rito, subito dopo il Cantico
di Zaccaria (Benedictus).
Da scaricare:
Rito dell'Ufficio
delle Tenebre
Saettia nella Chiesa di Santa Maria del Popolo
Il significato delle candele, del buio e dello strepito
Sulla destra dell’altare maggiore, illuminato con lampade e candele, si
predispone un candelabro triangolare in legno o lucernario (saettia) con
quindici candele accese. La vecchia formula del rito prevedeva che ogni
antifona desse a un addetto il segnale per spegnere una delle candele
del lucernario. Le candele che si spengono rappresentano le quattordici
stazioni della Via Crucis.
Finito il Miserere si spengono poi tutte le altre luci della chiesa, a
rappresentare sia gli apostoli che la folla (che aveva acclamato Gesù al suo
ingresso a Gerusalemme, ma che poi lo condannerà a morte) che abbandonano Cristo fuggendo (Mt
26, 56)
Saettia nella Chiesa di Santa Maria del Popolo
Nel buio resta accesa una sola candela all’apice del lucernario (Gesù abbandonato
da tutti) che viene nascosta per poi riapparire in seguito (prefigurando
la morte e la Resurrezione). Nell’oscurità della
chiesa
risuonano macinilli,
tocca-tocca, tric-trac e i colpi dati dai fedeli su banchi e sedie. Il
tumulto simboleggia il momento in cui “gli uomini hanno preferito le
tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie” (Gv 3, 19) e
prefigura inoltre il terremoto che seguirà la morte di Gesù. Dopo questo
breve momento si riaccendono le luci e la celebrazione termina nel
silenzio.
Ascolta 'I Tremule
I TREMULI
Ricordo di Salvatore Fabiano del 2020, in tempo
di Pandemia.
"La notte portò tuoni e lampi, una pioggia fittissima aveva bagnato i
tetti ed i vicoli del mio borgo. Udivo lo scorrere del fiume di acqua
piovana nella ripida discesa tra A Chiazza e la Vallata. Nel magazzino
sotto casa la solita porta che batteva in continuazione e mi incuteva
tanta paura. Il fondaco era stato abbandonato da Giovanni che abitava
alla Marina e la gente del posto lo utilizzava come lavatoio e
stenditoio.
Ma alla fine della lunga notte, tra il martedì ed il mercoledì santo,
giunse l’alba e con essa spuntò un bel sole. Credo fossero gli ultimi
giorni di un mese di marzo altalenante come al solito.
Il primo pensiero, dopo gli spaventi notturni, fu dedicato alla ricerca
del mio sfavillante “macinillo” che avrei esibito per l’occasione. Era
questo uno degli attrezzi che servivano per ravvivare ed accompagnare i
riti della Settimana Santa. Al pomeriggio di mercoledì ci sarebbero
state nella Chiesa Madre “i tremuli” e cioè la Funzione delle Tenebre
per ricordare il sisma che accompagnò la morte di Cristo.
“Ecco tutta di Sionne si commosse la pendice e la scolta insultatrice di
spavento tramortì”, scriveva il Manzoni negli Inni Sacri. “Il sol
s’oscura e infin la terra il sen disserra pel gran dolor…….” Recita una
canzone della Via Crucis.
Il mio “macinillo” di legno e compensato me lo aveva costruito un
allievo falegname, Eugenio Pellegrino, che abitava nel mio stesso vicolo
e che morì a soli 18 anni. L’avevo riposto nella cassapanca che
custodiva gli alimentari, fichi secchi e legumi, e non riuscii a
trovarlo. Qualcuno lo aveva spostato. Alla fine, la mia buona nonna
Matilde, con tanta pazienza, riuscì a rinvenirlo in una camera oscura
ove mia madre sarta teneva le riserve di carbone per il ferro da stiro e
per il braciere.
Fu gran festa: una tazza di latte, una rapida lavata e via di corsa alla
Nunziata per esibire il manufatto nuovissimo. Eravamo tutti pronti per
quanto sarebbe accaduto all’imbrunire.
La cerimonia religiosa era lunghissima, ma a noi non recava alcuna noia.
Tutti seduti sui gradini dell’altare attendevamo scambiandoci notizie
sull’autore o la provenienza dell’attrezzo di cui eravamo in possesso:
macinillo, tocca-tocca o tric-trac. Tutto sarebbe servito per fare
rumore ed accompagnare, senza conoscere il significato rievocativo, cioè
la simulazione del terremoto di duemila anni prima.
Il padrone di casa era l’arciprete don Ciccio Jaconangelo, un uomo
altissimo e molto dinamico nelle sue movenze. A noi ragazzini incuteva
timore in quell’occasione in quanto, forse vivendo con spirito di
sopportazione quanto avveniva al termine della cerimonia, tentava di
limitarne la baldoria.
Il lungo rito consisteva nella recitazione di alcuni Salmi, a voce
alternata, che due sacerdoti cantavano. Davanti all’altare veniva posto
un candelabro con una quindicina di candele che ad una ad una venivano
spente ad intervalli regolari. Con l’ultimo spegnimento si concludeva la
celebrazione. Venivano spente le luci della Chiesa per un brevissimo
tempo e tutti rumoreggiavano come potevano: attrezzi dei ragazzini,
catene “suonate” con il tremolio delle mani e libri battuti sui banchi.
Durante la lunga attesa il nostro confabulare era lento e con lo sguardo
impaurito rivolto all’arciprete che vigilava sulla nostra disciplina. Se
a qualcuno sfuggiva un piccolo rumore, ecco don Ciccio che, con due
veloci passi ed un gesto rapido della sua mano, sequestrava il macinillo
e lo collocava nel posto più alto dell’altare alle nostre spalle. La
festa finiva là per il contravventore, magari involontario, e non
restava che andarsene con le pive nel sacco. Il sequestro si sarebbe poi
concluso al termine della cerimonia.
Quell’anno capitò proprio a me di vedermi il macinillo nuovo di zecca
sequestrato. Un mio amico mi fece il dispetto aspettando che il braccio,
inquieto e in attesa del momento chiave, fosse abilmente spinto facendo
partire il tocco fatidico. L’immensa mano dell’arciprete sbucò alle mie
spalle e provvide al sequestro. A quel punto non aveva senso restare
sull’altare e presi la via dell’uscita. Mi ritrovai con altri ragazzini
che avevano subito lo stesso trattamento ed uno di essi era vicino di
casa con il quale giocavo nella Vallata. Non eravamo tipi da arrenderci:
uno sguardo d’intesa ed eccoci prendere posto davanti al confessionale.
Quando sopravvenne il buio totale ci impadronimmo delle due ante della
porticina e le battemmo con tutta la forza possibile quasi volessimo
cercare una vendetta verso colui che aveva operato il sequestro ai
nostri danni.
Finita la cerimonia mi rivolsi alle “pie donne”. Erano le due sorelle
Rosinella e Carmelella Scannavino, collaboratrici fidate dei parroci e
dal carattere dolce e sempre sereno. Rosinella era grande amica di mia
madre e, appena le indicai il mio macinillo, lo prelevò e me lo
riconsegnò.
Io ed il mio macinillo eravamo pronti per il Giovedì ed il Venerdì
Santo."
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